TARTUFI

Al genere Tuber appartengono i Tartufi (Micheli Nova Plantarum Genera 1729). I greci antichi li chiamavano “Hydnon” (l’idnologia è la scienza che studia i Tartufi) gli arabi“Tomer”, gli spagnoli “Turma de Tierra”, i francesi “Truffes”, gli inglesi “Truffles” , i portoghesi Trufa” , gli sloveni “Turf”, i turchi “ Jermantari”,i tedeschi “Hirstbrunst” I latini li chiamarono “tuber” e poiché tutti i botanici usavano il latino questo fu il nome che, fin dall’antichità i botanici dettero a questi pregiati organismi.

Cesalpino (1524-1603) in “De Plantis” del 1583, fu il primo a stabilire la loro natura fungina. Oggi noi sappiamo che anche se ipogei, pur essendo simili come forma alla patata, non sono dei tuberi come essa,bensì dei funghi. Il loro micelio vegetativo vive in simbiosi con le radici di diverse essenze arboree forestali sia latifoglie – Quercus, Populus, Castanea – sia conifere. Il Tuber borchii infatti si può sviluppare anche sulle radici del Pinus halepensis.

Il Micelio dei tartufi penetra nei tessuti delle zone esterne delle radici avvolgendole come un manicotto. Il fenomeno è definito “micorriza” ed è in questa sede che si svolgono i complessi processi simbiotici.

Il primo a notare un qualche cosa fu Albrecht von Haller (1708-1777) che, senza capire il problema, scrisse nel 1768 essere i tartufi collegati all’apparato radicale delle piante per “fila aliqua”.

La certezza però che i tartufi siano esclusivamente simbionti non è assoluta. Sembra infatti che nel primo periodo del loro sviluppo una fitta rete di ife sterili contorni il corpo fruttifero in evoluzione senza essere a contatto con le radici dell’albero. Poiché non esiste, in questa fase, nessun cordone di micelio che colleghi la micorriza al carpoforo, sarebbero quindi queste le sole ife deputate all’accrescimento del fungo facendogli assumere un comportamento da saprofita.

Le loro spore, generalmente in numero di quattro, sono contenute in cellule a forma di otre fornite di un corto peduncolo o sessili. Gli “aschi”.

L’ascocarpo dei tartufi generalmente è di forma rotonda, con gibbosità più o meno irregolari; il suo diametro può superare anche i 10 cm.

Lo strato esterno, comunemente detto “peridium”, può avere una superficie liscia, rugosa oppure munita di verruche piramidali. La forma e le dimensioni di queste variano da individuo a individuo e possono essere diverse anche nello stesso corpo fruttifero. Il peridium assicura la protezione alla massa carnosa interna detta “gleba”, può essere “omogeneo” con essa oppure “eterogeneo”, coriaceo e ben delimitato. Il Suo colore varia da specie a specie.

Nella pratica comune è possibile dividere il genere Tuber in due grandi gruppi:

quelli dal peridium nero es. Tuber Melanosporum

- quelli dal peridium rosso es. Tuber rufum

A questa seconda categoria appartengono anche quei tartufi che inizialmente hanno peridio biancastro e in seguito assumono una colorazione più o meno giallo-rossa.

Anche le diversità di colore, di aspetto e consistenza della gleba, sono caratteri usati con molto profitto nel riconoscimento delle specie. La gleba, inizialmente di colore bianco grigio, con la maturazione dell’ascocarpo, assume colorazioni diverse. Essa non ha un aspetto omogeneo in quanto è solcata da linee sinuose di differente colore dette “vene”, alcune sterili, altre fertili. Le vene sterili, chiamate da Rudolph Hesse (1844-1912) “vene linfatiche”, sono formate da un insieme di ife filamentose anastomosate, costituenti un vero e proprio labirinto all’interno della gleba. Sono cave con le loro estremità che si aprono sul peridium in modo da assicurare gli scambi gassosi con l’interno della gleba, indispensabili per la crescita del corpo fruttifero. Generalmente di colore bianco, possono assumere colorazioni diverse: bruno, rosa, giallo. In alcuni casi da bianche virano al rosso più o meno pronunciato al taglio dell’ascocarpo: es. Tuber macrosporum. Le vene fertili, che sostengono gli aschi, sono più regolarmente distribuite nella totalità della glebaGli aschi dei tuber hanno quasi sempre una forma ovale, ammettendo alcune eccezioni come negli appartenenti al gruppo del Tuber rufum nel quale alcune specie hanno aschi piriformi.

Le spore generalmente assumono una forma ellittica con una ornamentazione che può essere costituita da aculei – spore aculeate – o da alveoli contigui poligonali – spore reticolo alveolate -. Lunghezza e densità degli aculei, forma degli alveoli e altezza delle loro pareti, sono i caratteri microscopici di maggior rilievo sistematico ai fini della identificazione delle specie.

Ad esempio il Tuber melanosporum ha spore con aculei corti; al contrario il Tuber brumale ha spore con aculei lunghi. Nel Tuber magnatum le spore hanno alveoli irregolari mentre nel Tuber borchii sono regolari.

Il substrato di coltura deve essere di natura calcarea, con sottosuolo permeabile in modo da evitare ristagni d’acqua. Tartufi si trovano sia in Asia sia in America ma dal punto di vista climatico il migliore ambiente per la loro crescita è quello mediterraneo. Evidentemente è questo il motivo per cui Francia Italia e Spagna sono i maggiori produttori di tartufi sia spontanei sia coltivati.

Il primo a dichiarare di averli coltivati fu un nobile polacco, il conte De Borch (1751-1810). Nella “Lettres sur les truffes du Piémont” del 1780 scrisse di aver seminato in una cassa, contenente un terriccio di sua composizione, dei pezzi di tartufo trovato nelle campagne piemontesi e di averne ottenuti alcuni “grigi” della grandezza di una noce. Ebbe anche il modo di distinguere i tartufi neri da quelli bianchi; questi ritenuti “migliori”.

Nei primi anni del 1800, anche se in modo decisamente artigianale, ha inizio la coltivazione dei tartufi. In Francia, nella regione del Vaucluse, Joseph Talon, un agricoltore di St.Saturnin les Apt, raccolse delle ghiande da una quercia, sotto la quale erano stati raccolti dei tartufi neri (Tuber melanosporum) e le mise a dimora. Le piante crebbero ed a loro volta alcuni anni dopo produssero tartufi.

Di Talon si ricorda una sua frase diventata celebre: “se volete tartufi seminate ghiande”. I suoi concittadini per onorarne la memoria gli eressero una statua in una piazza di St Saturnin.

Continuatore del lavoro di Talon fu . Auguste Rousseau commerciante di tartufi di Carpentras, il quale nel 1847 iniziò la coltivazione di sette ettari con Quercus Ilex. Nel 1855 inviò all’Esposizione Universale di Parigi il prodotto ottenuto dalla sua piantagione e fu premiato con una medaglia d’oro. Nel 1857 una commissione incaricata di visitare la coltivazione di Rousseau vide in tre ore, cavare da maiali ben addestrati ben 17 kg di tartufi.

Per avere una buona riuscita nell’impianto di una tartufaia fondamentale è la scelta della essenza forestale simbionte già micorrizata da mettere a dimora. Le specie che fino ad ora hanno dato i migliori risultati sono il Quercus ilex e il Quercus pubescens. Necessario è anche piantare in terreno calcareo con Ph leggermente superiore a 7,5. La densità di piantagione è di 400-600 piante per ettaro che corrisponde ad un sesto di impianto quadrato con le essenze distanti dai 4 ai 5 metri. Nell’arco di 6-8 anni la tartufaia entra in produzione.

Generalmente il periodo della raccolta ha inizio verso la metà del mese di novembre per concludersi alla fine del mese di marzo. Poiché non è possibile vedere tartufi a 20-30 cm sotto terra, per la loro raccolta è stato necessario ricorrere al superiore fiuto di un animale. Nei tempi antichi il maiale, oggi il cane.

L’unico specializzatosi in tale ricerca è il “Lagotto romagnolo”. Non è necessario che il cane però sia di razza pura, l’importante che abbia un buon odorato e soprattutto un grande filing con “il compagno d’avventura”.

Le prime notizie circa l’uso alimentare dei tartufi risalgono al 1600-1700 a.C. In Mesopotamia, tra le rovine della città di Mari (oggi Tell Hariri) è stata trovata una tavoletta di terracotta sulla quale è inciso un cesto contenente Tartufi. Forse però si tratta dei cosiddetti “tartufi del deserto”, appartenenti al genere Terfezia che si trovano anche in Siria,Iran e Libia e che costituiscono un alimento apprezzato dalle popolazioni locali.

Secondo gli antichi romani i tartufi più pregiati sono quelli che si raccoglievano in Grecia e in Libia. In Giappone e in Cina sono conosciuti da molto tempo. In Francia sono famosi quelli del Perigord.

In Inghilterra, verso la fine del XVII secolo, Sir Tancred Robinson (1657-1748) nativo dello Yorkshire, medico personale di Giorgio I e membro della Royal Society, fu il primo a segnalare la presenza di tartufi nella regione del Northamptonshire.

In Germania si raccoglievano tartufi fin dai primi anni del XVIII secolo in alcune località del Brandenburgo e della Sassonia. In questa regione, i primi cani addestrati alla ricerca furono quelli del conte Wakkerbart che li acquistò nel 1724 sollecitato da alcuni ritrovamenti nei dintorni di Sedlitz (Dresda).

In Italia celebri località ove si cavano i tartufi bianchi sono quelle di Alba in Piemonte e di Acqualagna nelle Marche. Il tartufo nero è presente in tutto il territorio nazionale.

Teofrasto (371-287 a.C.) scrisse che, anche se privi di radici, erano dei vegetali generati da temporali autunnali con fulmini e tuoni.

Plinio (23-79 d.C.) oltre a scrivere che nascono in terreni asciutti, da una alterazione della terra, supponeva fossero una di quelle cose che “nascono ma non si possono seminare”. Nella sua “Naturalis Historia” riferisce anche dello strano episodio accaduto al pretore romano Larzio Licinio che mangiando un tartufo si spezzò un dente con una moneta incorporata nel medesimo.

Per il suo contemporaneo Dioscoride (30-80 d.C.) i tartufi sono “radici rotonde, senza foglie, senza fusto, di colore rossastro. Si raccolgono in primavera e si mangiano sia crudi che cotti.”

Il poeta latino Giovenale (60-135 d.C.) autore delle Satire, spiegò l’origine dei tartufi come il frutto di un fulmine scagliato da Giove alla base di una quercia( sacra al padre degli dei). Poiché Giove era noto per la sua prodigiosa attività sessuale, al tartufo furono attribuite qualità afrodisiache.

Galeno (129-201d.C.) lo suggeriva come alimento, non tanto per le sue proprietà nutritive quanto soprattutto per le sue qualità afrodisiache. Diversi secoli dopo Avicenna (980-1037 d.C.) per lo stesso motivo, li prescriveva ai suoi pazienti.

Recentemente alcuni ricercatori hanno dimostrato che i tartufi contengono uno steroide emanante un profumo analogo a quello prodotto dai maschi del maiale e dall’uomo nel corteggiamento. Ciò spiegherebbe, non tanto la sua fama di eccitante sessuale, quanto il motivo per cui le scrofe ricercano naturalmente i tartufi senza necessità di addestramento. La fama peraltro del tartufo, non solo afrodisiaco ma stimolatore delle virtù generative, si è accompagnata dai tempi antichi a quelli moderni.

Il famoso matematico e filosofo Pitagora (570-475 d.C.) raccomandava ai suoi amici.” Se vuoi esser virile mangia tartufi”.

Si racconta che un luogotenente di Napoleone Bonaparte (1769-1821) vantasse le virtù afrodisiache dei tartufi, che avrebbero permesso la generazione dei suoi molti figli. I maligni sussurrano che l’imperatore, seguendo il consiglio del suo luogotenente, ottenesse un qualche risultato, tant’è che dopo una lauta cena a base di piatti conditi con tartufi, la moglie Maria Luisa d’Austria sia rimasta incinta e che di conseguenza abbia partorito il futuro re di Roma.

Il medico francese Pennier de Longchamp (1747-1788) scrisse che il tartufo è un eccitante a causa dei sali alcalini volatili che contiene. Consigliava ai preti e alle suore di tenersene lontani per non mettere a repentaglio le loro virtù.

Mattioli (1500-1577) nei suoi “Commentarii a Dioscoride”, oltre a raffigurare dei tartufi neri che con molta probabilità sono dei Tuber aestivum, scriveva : “sono i tartuffi notissimi a ciascuno. Ritrovansi in Toscana abbondantemente per tutto”.

Verso la metà del XVI secolo, il medico e botanico Cesalpino, ispirandosi ai suoi predecessori, ne sosteneva le virtù afrodisiache scrivendo : “Tubera vim Veneris adaugent” ( i tartufi aumentano la forza di Venere).

Il medico tedesco Lonicerus (1528-1586) nel suo “Kreuterbuch” (Libro delle erbe) del 1557, ci comunica come l’uso smodato o la loro imperfetta cottura, sia causa di coliche e attacchi epilettici.

La prima monografia, sufficientemente completa, nella quale sono riportate in modo esauriente tutte le notizie dell’epoca sui tartufi, è quella pubblicata dal medico umbro Alfonso Ciccarelli (1532-1585) nato a Bevagna nei pressi di Foligno. Il lavoro, dal titolo “Opusculum de Tuberibus”, stampato a Bologna nel 1564, è diviso in 19 capitoli e riporta molte osservazioni personali espresse in maniera originale. Anche se l’Opusculum fu elaborato in pochi giorni è scritto in un latino colto e raffinato. Gli argomenti trattati sono diversi; tra questi si citano quelli dedicati alle possibilità di semina, gli usi popolari e quello in cui l’autore disquisisce sulla vera natura dei tartufi: “se radici, frutti o piante intere”.

Nel 1711 Geoffroy il giovane (1685-1752) è l’autore della memoria “Observations sur la végétation des Truffes”. In essa descrive le vene sterili come canali variamente convoluti o labirintici e alcune vescicole contenenti corpuscoli neri; ritiene che questi siano semi. La nota del francese sarà molto apprezzata da Vittadini che nel 1831 scriverà : “ La prima descrizione genuina dei Tuber la dobbiamo a Geoffroy junior, le cui osservazioni, specialmente quelle riguardanti l’organizzazionedei Tuber, offrono un particolare esempio di esattezza che nessuno dei più moderni è riuscito ancora a superare”.

Nel 1729 Micheli 1679-1737) oltre a riferire di due specie di tartufi (Tuber melanosporum e tuber aestivum) e a disegnarne gli aschi contenenti le spore, nel “Nova plantarum genera”così descrive i suoi caratteri. “Tuber è un genere di piante che nasce sottoterra, privo di radice, fusto, foglie, di forma rotondeggiante dalla corteccia diseguale con escrescenze simili a diamanti percorse da fenditure. La parte interna, dura percorsa da sottilissime vene sinuose che dividono la polpa in numerosi settori è simile alla noce moscata. Contiene capsule quasi rotonde, simili a vescicole. In ognuna di esse sono contenuti da due a quattro semi verrucosi rotondeggianti.”

Wiggers (1746-1811) primo ad usare per alcuni appartenenti ai Tuber la nomenclatura binomiale, in “Primitiae Florae Holsaticae” del 1780 così definisce le caratteristiche del genere:“ Funghi a forma di globo che contengono una sostanza polposa”.

In quel periodo, alcuni botanici come Pico (1750-1823) Bulliard (1752-1793) il pittore naturalista Sowerby (1757-1822) riportarono notizie con descrizioni e disegni di alcuni tuber senza affrontare mai uno studio analitico che avrebbe potuto condurre ad una classificazione.

Persoon (1781-1836) conosciuto come il principe dei micologi, nella sua “Synopsis methodica fungorum” del 1801, inserisce i Tuber nella classe degli “Angiocarpi” definendo i funghi di questo genere: “Rotondeggianti, carnosi. La loro carne è percorsa da vene seminifere”. Riporta però solo la descrizione di quattro specie : T. cibarium ; T. moschatum; T. griseum; T.album.

Fries (1794-1878) considerato il fondatore della sistematica moderna, nel secondo volume del suo “Systema Mycologicum”, assegna a Micheli il genere Tuber, lo inserisce nella classe dei “Gasteromycetes”, subordine “Tuberaceae” e così lo caratterizza:

“involucro rotondeggiante privo di radici il cui interno è simile al marmo percorso da venature. Sporangia sparsi membranacei piccoli rotondi con peduncoli, non visibili ad occhio nudo. Sporidia normali, presenti negli individui maturi. I funghi più grandi, ipogei che prediligono le regioni temperate, si conservano a lungo, profumati, saporiti, nutrienti, lodatissimi tra gli alimenti e proclamati anche come afrodisiaci. I maiali li ritengono deliziosi e indicano i luoghi di nascita.

“I cani adatti, ammaestrati con somma pazienza, fiutano questo fungo, scavano e lo indicano al padrone. Viene acquistato a caro prezzo dai devoti alla gola e a Venere”. (Scopoli)

Le tribù si distinguono secondo la superficie in :

Genuina: superficie scabra – T.cibarium; T.albidum

Spuria: superficie liscia- T.moschatum; T.griseum ; T.niveum; T. rufum”.

Per registrare un evidente progresso della scienza micologica, volto soprattutto alla conoscenza dei funghi ipogei, è necessario arrivare al 1831, anno nel quale il medico milanese Vittadini (1800-1865) pubblica la sua “Monografia Tuberacearum”.

L’unico appunto critico da rivolgere a questo studio è che Vittadini non conosce ancora la fondamentale differenza tra aschi e basidi e quindi la classificazione da lui proposta non risulta naturale. Anche se in una tavola del suo lavoro sono disegnati dei basidi egli applica la teoria corrente dell’epoca che vuole tutti i funghi con spore endogene.

Senza saperlo fu un precursore di Leveillé, cui comunemente è attribuita la scoperta dei basidi, ufficialmente comunicata dal medesimo al mondo micologico, nel 1837.

Nel lavoro prima citato, il medico milanese segue in parte Fries. Le “Tuberaceae” sono considerate un ordine appartenente alla classe dei “Gasteromycetes” e suddivise in due sottordini, quello delle “Hymenogastereae” “e quello delle “Tubereae” che comprende il genere Tuber. Nell’ambito di esso, considerando solo i caratteri morfologici, distingue due tribù :

- “Tubera Genuina” dalla carne tenera emanante un ottimo odore;

- “Tubera Spuria” dalla carne coriacea insipida.

Nei Tubera Genuina istituisce due gruppi :

esternamente scabri, muricato verrucosi

esternamente lisci, o soltanto papillosi.

In totale le specie descritte sono 16. Di queste, 13 sono definite nuove.

Il lavoro di Vittadini ebbe meritati apprezzamenti.

Nel 1835 Fries riportò nella sua Flora Scanica: “Vittadini rinnovatore dell’estinta classica micologia italica, ha trattato questo gruppo in modo così perfetto, che ne abbiamo ora una impareggiabile monografia.”

Nel 1840 Berkeley scrisse : “Straordinario è vedere il numero di specie ben definite e di generi che vengono qui caratterizzati”.

Una analisi più approfondita, rispetto a quella di Vittadini, fu svolta dai fratelli Tulasne sia perché conoscevano gli studi di Leveillé, sia perché disponevano di un microscopio migliore nelle prestazioni.

Nella loro pubblicazione, “Fungi Hypogaei” del 1851, espressero una loro classificazione sul genere Tuber utilizzando sia i caratteri macroscopici, come l’aspetto del peridium e la consistenza della gleba, sia i caratteri microscopici, come l’ornamentazione delle spore.

I Tulasne descrissero 21 specie; di queste, 16 erano state descritte da Vittadini.

La loro classificazione separa i Tuber in due grandi gruppi:

quelli dal peridium verrucoso (13 specie);

quelli dal peridium liscio (8 specie).

Nel primo gruppo 8 specie hanno il peridium omogeneo;

2 con spore aculeate, - T.brumale; T.melanosporum.

6 con spore reticolo alveolate – T.aestivum; T.mesentericum; T.macrosporum; T.oligospermum; T.foetidum; T.ferrugineum .

Sempre nel primo gruppo 5 hanno il peridium eterogeneo;

4 con spore aculeate – T.rufum; T.nitidum; T.panniferum; T.requeinii.

1 con spore reticolo alveolate – T.excavatum.

Nel gruppo con specie dal peridium liscio, tutte le 8 specie hanno spore reticolo alveolate – T.borchii; T.dryophilum; T.rapaeodorum; T.puberulum; T.maculatum; T.microsporum; T.asa; T.magnatum.

Vittadini è considerato il fondatore degli studi relativi ai funghi ipogei. I fratelli Tulasne avendo condotto uno studio di questi funghi con criteri più aderenti alla realtà, hanno raggiunto un grado di perfezione ancora oggi insuperato. Si tenga presente in proposito la separazione, dagli stessi operata, tra ipogei basidiomiceti e ipogei ascomiceti. I due francesi, che in gran parte avevano studiato su materiale fornito da Vittadini, ritenevano lo studioso italiano il loro maestro. Nel 1845 andarono a Milano per fare la sua conoscenza.

Nel 1894 Hesse in “Die Hypogaeen Deutschlands” rende ancora più semplice la classificazione dei Tulasne basandola solo sulla ornamentazione delle spore. Introduce però, per le spore reticolo alveolate, un nuovo carattere. Le dimensioni degli alveoli del reticolo sporale. Per Hesse le specie sono 27, di queste 7 hanno spore aculeate e 20 hanno spore reticolo alveolate : 6 con alveoli larghi e 14 con alveoli stretti.

Nel 1897 una classificazione ancora più moderna viene proposta da Fischer (1861-1939) in “Tuberaceen und Hemiasceen”. Lo studioso con una analisi ancora più approfondita, rispetto a quella dei suoi predecessori, sia sui caratteri esteriori (aspetto e colore del peridium) sia sui caratteri anatomici (ornamentazione delle spore, struttura anatomica del peridium) ne descrive 26 specie.

Oltre a quelli prima citati, studi di valore sul genere Tuber sono stati pubblicati da Chatin (1813-1901) nel 1869, da Mattirolo (1856-1947) nel 1900 e nel 1909, da Malençon (1898-1984) nel 1938 e da Ceruti (1911-2000) nel 1960.

Nel 1950 Knapp (1887-1954) in un lavoro sui funghi ipogei europei, seguendo forse le idee di Patouillard il quale, per eliminare le tante specie nuove, “ create dalla fantasia dei micologi”, sosteneva fosse necessario scegliere, per ogni genere, la “specie tipo” raggruppandogli intorno le piccole specie e varietà, esprime una nuova classificazione.

Il micologo svizzero istituisce diversi gruppi di Tuber determinando per ognuno di essi una specie tipo. In ogni gruppo poi vi inserisce tutte quelle specie che hanno affinità morfologiche simili alla specie tipo. Nella pratica attuazione tali gruppi, molto naturali, si possono ritenere dei subgeneri.

Di tartufi si è sempre scritto e molti quindi sono i fatti particolari e diversi raccontati nel passato. Su una cosa però tutti concordano. Il loro prezzo è molto elevato fin dai tempi antichi.

Marcus Gavius Apicius, vissuto nel primo secolo d.C. , nel suo “De re coquinaria” riporta sei ricette con i tartufi inserendole nel VII libro, quello delle vivande prelibate e quindi, evidentemente, delle più costose.

Apicio che considerava i tartufi come una “presenza divina” pose fine ai suoi giorni avvelenandosi alla conclusione di un banchetto in quanto non poteva più permettersi cene fastose.

Il già nominato Giovenale asseriva che “sarebbe stato meglio che fosse mancato il grano piuttosto che i tartufi”

Dopo gli antichi romani, l’uso di celebrare il tartufo venne meno fino ad essere collocato in una nicchia culturale propria delle credenze superstiziose popolari. La cronaca medievale ce lo ricorda per il suo colore nero, la corteccia scabrosa e la sua formazione sotterranea come una creatura satanica. In questo periodo infatti non si trova nessuna traccia di studi sui tartufi fino al Rinascimento.

Francesco I° d’Orleans (1494-1547) che durante la sua prigionia in Spagna, ebbe occasione di mangiare dei tartufi definì questo alimento come un “cibo degno di un re”.

Anche se non offre molto dal punto di vista scientifico, è da citare il poema in latino “Tubera Terrae” del 1776 scritto dal piemontese Giovanni Bernardo Vigo (1719-1805) professore di retorica all’università di Torino, che esalta le virtù del tartufo bianco. Lo stesso Vigo però crede che “Semina nulla damus, sine semine nascimur ullo” (Non diamo alcun seme, nasciamo senza alcun seme) schierandosi così tra i sostenitori della generazione spontanea.

Il magistrato francese Jean Anthelme Brillat Savarin (1755-1826) il cui nome è legato alla “Fisiologia del Gusto” – libro in cui sono riportate molte divertenti meditazioni sulla civiltà e i piaceri della tavola – chiama i tartufi “diamanti della cucina” e afferma: “ Colui che dice tartufo pronuncia una grande parola che risveglia ricordi erotici e golosi nel sesso portatore di gonne, e ricordi golosi ed erotici nel sesso portatore di barba”.

L’aristocratico e raffinato poeta inglese George Byron (1788-1824) teneva un tartufo sulla sua scrivania affinché il profumo risvegliasse il suo estro.

Il geniale e goloso musicista Gioacchino Rossini (1792-1868) definì il tartufo come il “Mozart della tavola”. Si racconta che un suo  ammiratore gli avesse chiesto se aveva mai pianto in vita sua: "Sì" rispose il compositore pesarese "una sera, in barca, sul lago di Como. Si stava per cenare e io maneggiavo uno stupendo tacchino farcito di tartufi. Quella volta ho pianto proprio: il tacchino mi è sfuggito ed è caduto nel lago!"

Il vulcanico scrittore francese , Honoré de Balzac (1799-1850) così ebbe a esprimersi : “ Qualche tartufo alla mia tavola ed ecco dieci, venti personaggi della ”Comédie Humaine” che zampillano dalla mia penna”.

Un altro scrittore francese, Alexandre Dumas (1802-1879) celebre autore de “ I tre moschettieri”, oltre a definire il tartufo come il “Sancta Sanctorum della tavola”, sostenne che “i golosi di ogni epoca non hanno mai pronunciato la parola tartufo senza togliersi il cappello”.

Il letterato francese Maurice Curnonsky (1872-1956) definito il “principe eletto dei gastronomi”, trattando della ricetta la “lepre reale”, che tra gli ingredienti comprende anche il tartufo, così ebbe ad esprimersi: “ Questo piatto è un ammirabile composto il cui profumo disturberebbe anche il sonno degli dei”.

La celebre scrittrice francese Colette (1873-1954) che amava definirli come “le gemme dei poveri”, in “ Paysage et Portrait” del 1958 ha scritto :” Se avessi un figlio da sposare, gli direi: diffida di una ragazza che non ama il vino, i tartufi, il formaggio”.

Andrea Brunori